Qualcuno si ricorda come chiamavamo, da piccoli, Clara, l’amichetta di Heidi?
Di sicuro non “disabile”. Forse Clara, forse handicappata.
Mio padre, classe 1938, ha sempre chiamato quelli che appartengono a questa categoria “infelici” (spesso con l’aggiunta dell’aggettivo “poveri”).
La legge quadro sull’handicap (la 104 del ’92) parla appunto di handicap, parola, soprattutto nella forma handicappato, che appare ai più imbarazzante, o lesiva. Ormai “handicappato” lo senti dire solo da un ragazzino delle medie che voglia usare un insulto a bassissima carica offensiva, o sulla bocca di un disabile, cosa che fa l’effetto di un ebreo che racconta barzellette sull’Olocausto.
In realtà “hand in cap” indica una penalità preventiva che veniva data al cavallo ritenuto superiore. In Italia diventa comune negli anni ’70, quando soppianta storpio, infelice, mongoloide (nella sparizione di questi termini c’entra la sparizione delle classi differenziali). Ma handicap non è una parola negative, perché non ha nulla a che fare col deficit. L’handicap è la difficoltà che il soggetto incontra, non la sua menomazione. Se voglio entrare in un pub a farmi una birra, e ci sono tre gradini, sono handicappata dalla struttura architettonica. Se c’è una rampa, mantengo il mio deficit, ma non sono più handicappata. L’handicap riguarda il contesto e non si concentra sulla persona. Disabile è una parola che sembra corretta ma in realtà contiene una discriminazione, perché mette l’accento sulla negatività. Non cambia molto (anzi, forse peggiora la situazione) l’espressione “diversamente abile”, coniata nel 2011.
E comunque non si dovrebbe dire “i disabili”, come nessuno parlerebbe seriamente di “more” o “bionde” riferendosi alle donne, a meno di non voler essere tacciati di sessismo. Le persone disabili non sono una categoria uniforme nella quale si finisce per effetto di una malattia o di un incidente, e che provoca un misto di pena e ripulsa.
Le persone sono persone: con gli occhiali, con i capelli rossi o con disabilità.